mercoledì 30 novembre 2016

Sinistra del '900 a braccetto con i populisti

Concordo, il NO della sinistra del '900 è un alleanza con i populisti per far fuori Renzi, rinnovatore della palude della sinistra ma troppo "controtutti". Il loro NO porterà solo a un ulteriore suicidio della sinistra, moderata o meno. Votate pure NO, ma dopo, comunque bisognerà rimboccarsi le maniche,  chiunque vinca

domenica 20 novembre 2016

Se vince il NO, peggio per il NO? Fantapolitica, ma non tanto, secondo Bordignon


Il Piccolo Triesteprintclose
5 dicembre, ha vinto il grande No
Renzi lascia. E adesso che succede?
di FABIO BORDIGNON Il blackout dei sondaggi - che in Italia ci lascia “al buio” nei 15 giorni precedenti il voto - è scattato con il No in netto vantaggio. Non tanto, però, da escludere sorprese, il 4 dicembre. Del resto, dopo il caso Brexit e il caso Trump, in molti ipotizzano l’esistenza di una maggioranza sì-lenziosa (per usare il gioco di parole coniato da Claudio Cerasa de Il Foglio). Ma vale comunque la pena di iniziare a immaginare il corso della politica italiana in caso di bocciatura della Riforma costituzionale. Che potrebbe portare a esiti inattesi: addirittura contrari alle aspettative dell’#ItaliaDelNo, che sogna la spallata a Matteo Renzi e al renzismo. Facciamo un po’ di fiction. È la mattina del 5 dicembre. Hanno vinto Matteo Salvini e Beppe Grillo. Ma anche Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema. Ha vinto il No: nonostante gli endorsement internazionali e l’abbattimento di Equitalia. Non è la fine del mondo. Le borse cedono un po’: non è un crollo. I cavalieri dell’apocalisse non portano pestilenza, guerra, carestia. Renzi mantiene la promessa: con un tweet annuncia le dimissioni. Poi, sale al Colle. I primi a soccorrerlo sono i nemici del giorno prima: tutti sognano un’anatra zoppa su cui sparare fino al 2018. Per qualche giorno si parla di un #RenziII. Il rottamatore dimissionario si fa persino tentare. Ma poi conferma il suo No: l’unica soluzione - tuona da Pontassieve - è il voto anticipato. Tuttavia, di fronte alle resistenze di Sergio Mattarella, che spinge per una soluzione “parlamentare” alla crisi, non si mette di traverso. Accetta che si formi un nuovo governo di larghe intese, con il compito di portare avanti le misure più urgenti: il completamento della manovra economica; la definizione della nuova legge elettorale. Messa da parte l’anomalia del doppio incarico, il segretario-non-più-premier fa quello che alcuni gli chiedono da tempo: si occupa del Partito democratico. Il Pd è in subbuglio. I nemici della minoranza interna puntano a dare il colpo di grazia all’usurpatore. Ma Renzi rimane in sella. E plasma il partito a sua immagine e somiglianza. Non c’è alcuna scissione: semmai, qualche defezione individuale. Nel frattempo, la Corte costituzionale amputa l’altra gamba della Grande riforma: l’Italicum. Rimane in piedi, per la Camera e per il redivivo Senato, un sistema puramente proporzionale. Il dibattito sulla legge elettorale prosegue: ognuno sostiene il proprio progetto di legge, il proprio modello straniero da imitare. Ma, in realtà, a tutti non dispiace l’idea di andare a votare con le regole disegnate dalla Consulta. D’altronde, la prossima sarà una #LegislaturaCostituente ! Il proporzionale: va bene a Grillo, va bene a Berlusconi, va bene, a questo punto, persino a Renzi. Le riforme sono ormai in un vicolo cieco. I conti economici confermano la stagnazione. Cresce la conflittualità politica. Insieme all’insofferenza dei cittadini. Nei sondaggi, Lega e Movimento 5 stelle volano. Mentre gli azionisti di maggioranza fanno a gara a chi si mostra più lontano dall’esecutivo. La situazione scivola, inesorabilmente, verso nuove elezioni. Andiamo avanti, nel nostro divertissement fantapolitico sulla #RepubblicaDelNo. Il confronto procede a colpi di scandali, attacchi personali, zuffe in televisione. «È la peggiore campagna elettorale di sempre!» Non siamo nella prima Repubblica. In uno scenario iper-personalizzato, i primattori sono sempre loro: Grillo, Berlusconi, Salvini. E naturalmente Renzi. L’esito delle elezioni, tuttavia, assomiglia molto a quelli dei primi quarant’anni della storia repubblicana. M5S e Lega Nord aumentano il proprio bottino di voti, ma non hanno i numeri per governare. Anche perché gli avversari si chiudono a riccio, in una rinnovata conventio ad excludendum. Del resto, lo spauracchio populista è stato il tema centrale della campagna. Grazie al quale, anche il Pd® è tornato a crescere. E si propone, inevitabilmente, come perno di un nuovo (e ampio) patto centrista. Che torna al governo: senza alternative. È l’inizio di una lunga egemonia. Anti-renziani di tutto il Paese, unitevi: il 4 dicembre votate Sì.

sabato 5 novembre 2016

Welcome in Muggia

"Ma invece che il solito sistema cattopiddino di frignarsi, interrogarmi e fare un cazzo, perché troppo snob...una bella contro manifestazione in contemporanea ... "Così Silvio Postogna.
Si arriverebbe a uno scontro di piazza (!) senza far valere le ragioni dell’ accoglienza cristiana e laica.
I muggesani però potrebbero portare il loro “Benvenuto” con qualche piccolo dono, come si usava una volta. Si può fare?

giovedì 3 novembre 2016

Referendum, un'occasione per non litigare e imparare a restare sul tema



Che barba! Anche da Lilly Gruber si comincia a litigare. Ovviamente sul referendum. Da qualche giorno non guardo più 8e 1/2, l'unica trasmissione politica ascoltabile senza farmi venire l'orticaria da ascolto di pseudoarrabbiati. Per fortuna oggi l'articolo di Pizzetti sul piccolo mi riconcilia col tema referendum, che rischiava di nausearmi di qualunque tema politico. Anche perché qua tutti si dichiarano anti quello o quell'altro più che altro perché non capiscono nulla di questa riforma costituzionale.
" Referendum, le tre obiezioni. di franco pizzetti. Nel dibattito sul referendum sono emerse posizioni contrarie alla riforma che giustificano un approfondimento sia nel merito che nella concezione di democrazia che ne è alla base. La prima obiezione è che la riforma sarebbe viziata in radice perché approvata da una maggioranza superiore a quella assoluta, ma col voto contrario, o la non partecipazione alla votazione finale, di larga parte delle due Camere. Il presupposto che è la modifica della Costituzione richiederebbe un consenso amplissimo dei rappresentanti del popolo italiano. Il fatto è che non è questa la scelta fatta dal Costituente che, all’articolo 138 della Costituzione, ha esplicitamente previsto che è sufficiente una maggioranza pari a quella assoluta, fermo restando che in mancanza dei due terzi dei consensi è possibile il ricorso al referendum. Non è questione di forma ma di sostanza. La Costituzione non ha voluto imporre alle generazioni future vincoli maggiori di quelli che ebbe la stessa Assemblea costituente, per le cui decisioni era sufficiente la maggioranza assoluta. In sostanza non si è voluto rendere più difficile riformare la Costituzione di quanto non fosse stato approvarla. Affermare che, indipendentemente da quanto previsto dall’articolo 138, ogni riforma costituzionale non sia politicamente legittima a meno che non si raggiunga un quorum pari o superiore ai due terzi, significa concepire la Costituzione non come la regola fondamentale dell’ordinamento, ma come un freno al diritto della maggioranza di ogni generazione di darsi le regole costituzionali più adatte al proprio tempo. La seconda obiezione è che non sarebbe politicamente corretto che la riforma costituzionale sia presentata dal governo, anche quando essa non tocca in alcun modo i diritti fondamentali dei cittadini né le loro libertà. A parte che questo è già accaduto con la riforma del 2008, presentata dal governo Berlusconi e poi respinta dal voto popolare, ritenere che il governo non possa esercitare il potere di indirizzo anche rispetto alla riforma costituzionale, implica di nuovo concepire la Costituzione non come il quadro fondamentale che regola la vita democratica ma come il freno alla legittima potestà della maggioranza assoluta degli eletti dai cittadini di decidere del proprio futuro, anche modificando il dettato costituzionale rispetto all'ordinamento della Repubblica. Sulla stessa linea è anche la terza obiezione secondo la quale la riforma costituzionale conterrebbe una netta scelta antiparlamentare, orientata unicamente a rafforzare il governo. La premessa di questa tesi è duplice. Da un lato riguarda il fatto che una delle due Camere non è più eletta direttamente dai cittadini e rappresenta non gli elettori come tali ma le istituzioni territoriali. Si vede infatti in questo un indice di indebolimento del Parlamento e, di conseguenza, un forte rafforzamento dell’esecutivo. La possibilità per il governo di chiedere che un disegno di legge sia esaminato entro settanta giorni e quella di presentare disegni di legge in materie riservate alle regioni quando lo richieda la salvaguardia dell’unità economica e sociale della Repubblica oppure la tutela dell’interesse nazionale vengono viste come prova di tale rafforzamento. Da un altro lato, i sostenitori dell’indebolimento del Parlamento considerano la legge elettorale per la Camera, con la previsione del premio di maggioranza e dell’eventuale ballottaggio tra le due prime liste, una ulteriore conferma che lo scopo ultimo è la primazia dell’esecutivo. Sia l’uno che l’altro argomento non reggono. La nuova composizione del Senato non incide affatto sulla forma di governo, che resta parlamentare perché fondata sul nesso di fiducia che lega il governo alla Camera. La sola innovazione è che, come avviene ormai in tutte le democrazie parlamentari, la fiducia è data e negata da una sola delle due camere, quella appunto che è eletta direttamente dai cittadini. Ancor meno ragionevole è la tesi che le legge elettorale con il premio di maggioranza e l’eventuale ricorso al ballottaggio renderebbe, di per sé sola, il governo scaturito dalle elezioni fortissimo e sostanzialmente inamovibile. Quello che conta è che l’esecutivo deve avere la fiducia della Camera. Quale che sia la legge elettorale e il premio di maggioranza previsto, niente può garantire che nel corso della legislatura non si formino nell’assemblea parlamentare nuove e diverse maggioranze, costringendo il governo a dimettersi per dar vita ad altri esecutivi. In sostanza, nessuna delle tesi principali dei sostenitori del No regge a un esame approfondito. Cosa lega però tra di loro queste obiezioni? Credo che la risposta sia semplice. Al fondo della visione costituzionale ereditata dal nostro complicato passato sta l’idea di una democrazia essenzialmente rappresentativa e sostanzialmente consociativa, nella quale i poteri reciproci di veto prevalgono sul corretto gioco fra maggioranza e opposizione. Di qui la paura di una riforma fatta a maggioranza assoluta, anche in assenza di un consenso più ampio. Di qui la diffidenza verso una Camera eletta sulla base del premio di maggioranza. E di qui il timore che il sistema elettorale basato su un premio di maggioranza legato a un eventuale ballottaggio, possa rendere il governo così forte da poter dominare la Camera, e la Camera così debole da subire sempre e comunque il dictat del governo. Siamo così arrivati al punto centrale della campagna referendaria. Ancora una volta la scelta è fra la conservazione di una democrazia basata sul potere di interdizione, e una riforma innovativa che privilegia la cooperazione tra le istituzioni territoriali nel Senato, ma favorisce la democrazia decidente nel rapporto tra elettori ed eletti e tra Camera e governo. Una democrazia nella quale i cittadini hanno il diritto di scegliere chi deve governare e il governo ha il diritto di esercitare il potere di indirizzo e di scelta fino a che goda la fiducia della Camera. Questo è il centro della questione. Questa è la scelta vera che gli italiani sono chiamati a compiere. "