giovedì 3 novembre 2016

Referendum, un'occasione per non litigare e imparare a restare sul tema



Che barba! Anche da Lilly Gruber si comincia a litigare. Ovviamente sul referendum. Da qualche giorno non guardo più 8e 1/2, l'unica trasmissione politica ascoltabile senza farmi venire l'orticaria da ascolto di pseudoarrabbiati. Per fortuna oggi l'articolo di Pizzetti sul piccolo mi riconcilia col tema referendum, che rischiava di nausearmi di qualunque tema politico. Anche perché qua tutti si dichiarano anti quello o quell'altro più che altro perché non capiscono nulla di questa riforma costituzionale.
" Referendum, le tre obiezioni. di franco pizzetti. Nel dibattito sul referendum sono emerse posizioni contrarie alla riforma che giustificano un approfondimento sia nel merito che nella concezione di democrazia che ne è alla base. La prima obiezione è che la riforma sarebbe viziata in radice perché approvata da una maggioranza superiore a quella assoluta, ma col voto contrario, o la non partecipazione alla votazione finale, di larga parte delle due Camere. Il presupposto che è la modifica della Costituzione richiederebbe un consenso amplissimo dei rappresentanti del popolo italiano. Il fatto è che non è questa la scelta fatta dal Costituente che, all’articolo 138 della Costituzione, ha esplicitamente previsto che è sufficiente una maggioranza pari a quella assoluta, fermo restando che in mancanza dei due terzi dei consensi è possibile il ricorso al referendum. Non è questione di forma ma di sostanza. La Costituzione non ha voluto imporre alle generazioni future vincoli maggiori di quelli che ebbe la stessa Assemblea costituente, per le cui decisioni era sufficiente la maggioranza assoluta. In sostanza non si è voluto rendere più difficile riformare la Costituzione di quanto non fosse stato approvarla. Affermare che, indipendentemente da quanto previsto dall’articolo 138, ogni riforma costituzionale non sia politicamente legittima a meno che non si raggiunga un quorum pari o superiore ai due terzi, significa concepire la Costituzione non come la regola fondamentale dell’ordinamento, ma come un freno al diritto della maggioranza di ogni generazione di darsi le regole costituzionali più adatte al proprio tempo. La seconda obiezione è che non sarebbe politicamente corretto che la riforma costituzionale sia presentata dal governo, anche quando essa non tocca in alcun modo i diritti fondamentali dei cittadini né le loro libertà. A parte che questo è già accaduto con la riforma del 2008, presentata dal governo Berlusconi e poi respinta dal voto popolare, ritenere che il governo non possa esercitare il potere di indirizzo anche rispetto alla riforma costituzionale, implica di nuovo concepire la Costituzione non come il quadro fondamentale che regola la vita democratica ma come il freno alla legittima potestà della maggioranza assoluta degli eletti dai cittadini di decidere del proprio futuro, anche modificando il dettato costituzionale rispetto all'ordinamento della Repubblica. Sulla stessa linea è anche la terza obiezione secondo la quale la riforma costituzionale conterrebbe una netta scelta antiparlamentare, orientata unicamente a rafforzare il governo. La premessa di questa tesi è duplice. Da un lato riguarda il fatto che una delle due Camere non è più eletta direttamente dai cittadini e rappresenta non gli elettori come tali ma le istituzioni territoriali. Si vede infatti in questo un indice di indebolimento del Parlamento e, di conseguenza, un forte rafforzamento dell’esecutivo. La possibilità per il governo di chiedere che un disegno di legge sia esaminato entro settanta giorni e quella di presentare disegni di legge in materie riservate alle regioni quando lo richieda la salvaguardia dell’unità economica e sociale della Repubblica oppure la tutela dell’interesse nazionale vengono viste come prova di tale rafforzamento. Da un altro lato, i sostenitori dell’indebolimento del Parlamento considerano la legge elettorale per la Camera, con la previsione del premio di maggioranza e dell’eventuale ballottaggio tra le due prime liste, una ulteriore conferma che lo scopo ultimo è la primazia dell’esecutivo. Sia l’uno che l’altro argomento non reggono. La nuova composizione del Senato non incide affatto sulla forma di governo, che resta parlamentare perché fondata sul nesso di fiducia che lega il governo alla Camera. La sola innovazione è che, come avviene ormai in tutte le democrazie parlamentari, la fiducia è data e negata da una sola delle due camere, quella appunto che è eletta direttamente dai cittadini. Ancor meno ragionevole è la tesi che le legge elettorale con il premio di maggioranza e l’eventuale ricorso al ballottaggio renderebbe, di per sé sola, il governo scaturito dalle elezioni fortissimo e sostanzialmente inamovibile. Quello che conta è che l’esecutivo deve avere la fiducia della Camera. Quale che sia la legge elettorale e il premio di maggioranza previsto, niente può garantire che nel corso della legislatura non si formino nell’assemblea parlamentare nuove e diverse maggioranze, costringendo il governo a dimettersi per dar vita ad altri esecutivi. In sostanza, nessuna delle tesi principali dei sostenitori del No regge a un esame approfondito. Cosa lega però tra di loro queste obiezioni? Credo che la risposta sia semplice. Al fondo della visione costituzionale ereditata dal nostro complicato passato sta l’idea di una democrazia essenzialmente rappresentativa e sostanzialmente consociativa, nella quale i poteri reciproci di veto prevalgono sul corretto gioco fra maggioranza e opposizione. Di qui la paura di una riforma fatta a maggioranza assoluta, anche in assenza di un consenso più ampio. Di qui la diffidenza verso una Camera eletta sulla base del premio di maggioranza. E di qui il timore che il sistema elettorale basato su un premio di maggioranza legato a un eventuale ballottaggio, possa rendere il governo così forte da poter dominare la Camera, e la Camera così debole da subire sempre e comunque il dictat del governo. Siamo così arrivati al punto centrale della campagna referendaria. Ancora una volta la scelta è fra la conservazione di una democrazia basata sul potere di interdizione, e una riforma innovativa che privilegia la cooperazione tra le istituzioni territoriali nel Senato, ma favorisce la democrazia decidente nel rapporto tra elettori ed eletti e tra Camera e governo. Una democrazia nella quale i cittadini hanno il diritto di scegliere chi deve governare e il governo ha il diritto di esercitare il potere di indirizzo e di scelta fino a che goda la fiducia della Camera. Questo è il centro della questione. Questa è la scelta vera che gli italiani sono chiamati a compiere. "

Nessun commento:

Posta un commento