lunedì 21 settembre 2015

I rifugiati, le ronde e le paure. A Valmaura per capire

Sono andato a Valmaura per capire cosa pensano i residenti dell’arrivo dei richiedenti asilo nel capannone di Rio Primario. Ho cominciato entrando in un bar e ho chiesto alla barista se avesse l’impressione che ci fosse preoccupazione riguardo quest’arrivo. Ce ne era molta e non era un’impressione, ma una convinzione, tanto che raccoglievano firme nei bar e “tutti firmano”. Ho girato nei bar e nelle strade e questo mi ha consentito di parlare con parecchie persone, tanto da raccogliere una serie di commenti. 
C’è preoccupazione (“rubano”;”porteranno droga e malattie”;“con i lavori socialmente utili porteranno via lavoro ai locali disoccupati”…) e diffidenza (“hanno un'altra cultura”;“scappano solo uomini, quindi sono vili se lasciano la famiglia in zona di guerra”;”girano in gruppo e nei bus non lasciano il posto alle anziane”; hanno cellulari costosi!”; “le nostre donne non sono sicure”…), ma non paura. 
Mi hanno manifestato la preoccupazione che si fronteggino gruppi di giovani locali e i rifugiati. Questo sembra anche a me un problema reale, soprattutto se alimentato dalle “ronde di volontari” che potrebbero creare un pericoloso spirito di emulazione dei personaggi di tanti film. Nell’insieme, però, non ho incontrato sentimenti realmente ostili, anzi, anche molta comprensione delle difficoltà dei richiedenti asilo (“il nuovo spaventa sempre”;”scappano dalla guerra”;“avranno freddo d’inverno in quel capannone”), assieme a tanta preoccupazione, alimentata certamente anche dalla raccolta di firme per motivi elettorali contro questa temporanea presenza, non certo per affrontare il problema. I firmatari hanno trovato evidentemente solamente questa possibilità per farsi sentire.
Penso però che un’opera attiva di comprensione del nuovo fenomeno potrebbe ancora ridimensionare queste comprensibili preoccupazioni e diffidenze, tanto da evitare possibili tensioni. È comprensibile che chiunque desideri tutelare le conquiste sociali ed economiche e la stessa composizione sociale di un paese, ma questo non deve demonizzare il nuovo, perché si arriverebbe a una rigidità che blocca il dinamismo, principale motore dello sviluppo sociale ed economico. 
Trieste è in prima linea e non può esserlo da sola. Il problema deve essere affrontato a livello europeo. E non basta dire genericamente che vanno aiutati. Come non basta più dire “non li voglio qui”. Gli interventi vanno fatti in modo tempestivo ed efficiente senza che i triestini ne siano svantaggiati. 
Il Comune di Trieste ha scelto l'accoglienza diffusa, una delle risposte più efficaci in Italia. Ora ha promosso una raccolta di vestiti e coperte stimolando così una solidarietà, che si era già manifestata con la marcia degli scalzi. Questa ha smosso sicuramente delle sensibilità, anche perché ora è necessario che si comprenda che questo tipo di migrazione potrà ripetersi e non si può fermare certo con le armi o con i muri. 
Mi chiedo però se Trieste sia in grado di essere parte attiva di un welfare moderno. Deleghiamo solo alla politica e al volontariato quello che potremmo fare in molti? A cominciare dall’ascoltare le loro storie, a coinvolgerli in un processo d’integrazione, anche se temporanea, facendo conoscere loro le nostre leggi e i nostri costumi, ma anche aiutandoli attivamente almeno con quello che per noi è superfluo. Molte volte ci rifiutiamo inconsapevolmente di fare anche questo. Nessun buonismo inutile, ma comprensione del presente per avere un futuro in cui siamo protagonisti, e non confusi e indifferenti. Un Paese che non può contare sulla partecipazione popolare non ha un gran futuro. Anche l’Europa deve capire cosa vuol fare da grande, ma noi possiamo esprimere intanto solidarietà e sforzarci di intervenire e capire meglio quanto sta accadendo, dal punto di vista di una visione del modello di società che vogliamo.

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